Pagina a cura del Dott. Sergio Ferrandi

Gruppo Specialistico Comunicazione ed Immagine


Nel mese di giugno sul quotidiano “La Repubblica” e sulla sua versione online “Repubblica.it, nel blog “InveceConcita”, curato dalla giornalista Concita De Gregorio, sono state pubblicate alcune lettere che affrontavano il tema della salute mentale.

Le riportiamo integralmente, perché riteniamo che una maggiore comprensione di questa delicata problematica, nei suoi molteplici aspetti, sia un utile supporto per chi deve affrontarla quotidianamente e può confrontarsi con altre esperienze. Ma crediamo siano di interesse anche per chi vuole saperne di più sul disagio mentale. 

Nel nostro piccolo, abbiamo inviato anche noi al blog una lettera in cui spiegavamo la dura realtà che devono affrontare le famiglie e che cosa si può fare per aiutarle. Non è stata pubblicata, ma come spiega la giornalista, “ho ricevuto decine di lettere sulla Legge 180”. Non c’è problema, l’importante è che se ne scriva! Per chi fosse interessato, è qui sotto. A seguire le lettere pubblicate. 

CONCITA DE GREGORIO


A Repubblica dal 1990 al 2008, poi direttore de L’Unità dal 2008 al 2011, è rientrata a Repubblica come editorialista. Laureata in Scienze Politiche all’Università di Pisa, ha iniziato la carriera nelle radio e tv locali toscane. È autrice di numerosi libri tra cui "Non lavate questo sangue" (Laterza, 2001), "Una madre lo sa" (Mondadori, 2006), "Così è la vita"(Einaudi, 2011), "Io vi maledico" (Einaudi, 2013). Nel 2014 è uscito "Un giorno sull'isola", scritto con il figlio Lorenzo. Nel 2015 ha pubblicato “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli), mentre nel 2016 sono usciti “Cosa pensano le ragazze” (Einaudi), legato al progetto omonimo che appare su Repubblica.it, e "Non chiedermi quando. Romanzo per Dacia" (Rizzoli). Per tre anni ha condotto su Rai Tre la trasmissione televisiva "Pane quotidiano" dedicata ai libri. Dall'autunno scorso va in onda, sempre su Rai Tre, "Fuori Roma", programma da lei ideato e condotto.


La nostra lettera

Gentile Dott.ssa De Gregorio,

ho letto con interesse le lettere di Vittoria Corsini e della signora Rosanna sulla legge 180/78 e vorrei intervenire come parte in causa. Sono Simona Monguzzi, presidente dell’associazione di promozione sociale “Giulia e Matteo” di Lissone (MB), costituita da un gruppo di familiari e amici di persone affette da disturbi del comportamento o con disabilità associate al disturbo psichiatrico.

 

Chi sono Giulia e Matteo? Purtroppo, chi erano. Due ragazzi a cui il “male oscuro” ha stravolto la vita fino a portarli ad una tragica conclusione. Fondare un’associazione in loro nome è stato un modo per condividerne il ricordo e nello stesso tempo un’occasione per portare avanti la richiesta alle istituzioni e agli operatori di un’adeguata assistenza ai malati psichiatrici e di un doveroso sostegno ai loro famigliari.

Vorrei sottolineare come diventi difficile, per chi non è mai stato coinvolto, immaginare cosa avviene in una famiglia al primo insorgere di un disturbo psichico in un congiunto. Di fronte alla sua sofferenza ci si sente disperatamente impotenti. Si è invasi da un senso di angoscia, di paura di non riuscire ad affrontare le eventuali crisi, di cosa può succedere al malato e agli altri congiunti.  

A ciò si aggiunge molto spesso un senso di vergogna e di colpa, quasi che il disagio mentale sia causato della famiglia stessa. Purtroppo in Italia non siamo ancora riusciti a superare il pregiudizio sulla malattia psichiatrica, che dovrebbe essere considerata come qualsiasi altra, evitando di segnare con lo stigma sociale il malato e i suoi famigliari.

La conseguenza è un pesantissimo senso di solitudine che induce la famiglia a chiudersi in sé, creando così un ambiente ad “elevata temperatura emotiva” assolutamente negativo per il malato. Un malato sovente ossessionato da rabbie, paure, allucinazioni e fantasmi che finiscono per annullarne la personalità, oppure che viene colpito da un’apatia totale che lo porta a rifiutare anche le più elementari norme igieniche ed alimentari.

Nelle situazioni più impegnative la sofferta convivenza, l’assistere all’avanzare della malattia e alla perdita progressiva delle capacità cognitive e relazionali del familiare producono uno stato continuativo di stress tale da minare le possibilità reattive della famiglia stessa.

Ecco perché come associazione noi sosteniamo che le famiglie non debbano essere lasciate sole ad affrontare dei problemi a cui non sono preparate.

Per questo cerchiamo di dare loro voce e supporto e nello stesso tempo di richiamare gli organi legislativi e amministrativi dello Stato e gli enti pubblici locali a rispettare la legislazione vigente in materia di salute mentale.

 

Inoltre, nel nostro piccolo, con l’aiuto di medici, psicologi amici e di gran parte del tempo libero dei nostri soci siamo riusciti a organizzare una serie di servizi continuativi per supportare le famiglie: un esempio è lo sportello di ascolto, a cui ci si può rivolgere per un primo orientamento, per essere informati sulle possibili soluzioni disponibili sul territorio e anche per affrontare le problematiche che possono sorgere nei rapporti con i DSM (dipartimenti di salute mentale).

 

Organizziamo anche incontri di auto – mutuo aiuto per i famigliari, dove ci si confronta con persone che già hanno vissuto l’esperienza o che condividono lo stesso problema. Perché il parlare, il confrontarsi, l’esprimere liberamente le proprie angosce senza provare vergogna danno la forza di sconfiggere ingiustificati sensi di colpa e di reagire. Di sopportare il peso di una responsabilità che affrontata da soli ti può travolgere.

 

Simona Monguzzi                            

Associazione Giulia e Matteo                   

3 GIUGNO 2018

Legge 180, se a impazzire è la famiglia

Ricevo da Rosanna, che conosce la Sanità pubblica per averci lavorato a lungo, una testimonianza anche personale. Parla, in estrema sintesi, di familiari che si ammalano per accudire pazienti psichiatrici non gestiti. In un momento di passaggio della vita pubblica, mentre sta per mettersi alla prova un nuovo governo, credo che l’attenzione alla dimensione pubblica di tutela delle fasce più deboli della società dovrebbe essere al centro, non ai margini, della discussione collettiva.

"I risultati della legge 833/78 sull’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale sono innegabili perché ha portato l’Italia in vetta alle statistiche mondiali per l’aumento dell’aspettativa di vita, per la riduzione drastica delle morti per parto, ecc. Lo stesso processo non è avvenuto per la legge 180/78. Se ho una grossa ferita aperta so dove devo andare per avere assistenza e, nel caso di emergenza, sono le stesse strutture sanitarie che mi raggiungono. Se il problema è di natura mentale tutta questa conoscenza e attenzione scompaiono. Perché?".

"Forse siamo tutti diventati persone che possono avere degli atteggiamenti NON identificabili con la follia o il disagio mentale anche quando questi arrivano a danneggiare la collettività, neanche quando questi tratti di alternatività alla 'normalità' mettono i familiari in una condizione di sequestrati in casa? Quando capisci che un tuo caro ha un problema di relazione con il mondo che lo circonda (generando problemi, anche drammatici, per sé e per i suoi cari) non trovi NESSUNO deputato alla 'certificazione' di questo evidente stato di malattia e alle cure che ne dovrebbero derivare".

"Tutti pensano/dicono 'è matta' ma nessuno pensa che sia opportuno intervenire: perché non è suo compito? Perché è un 'diritto' aggirarsi per il mondo in evidente stato confusionale in barba ad ogni concetto di dignità umana? Perché? Abbiamo riabilitato la figura del 'matto', ci siamo abituati a vederne per strada con le loro buste piene di stracci, buttati in un angolo con le coperte, sporchi, ubriachi, urlanti per la via. Tutto questo è diventato normale. Molti dicono: 'Abbiamo tolto lo stigma'. NON E’ VERO".

"Ci siamo abituati a vedere i 'matti' in giro e non più confinati in brutti e sporchi manicomi ma poco o nulla (in alcune regioni) è stato fatto per sostenerli e, soprattutto, per sostenere e dare sollievo alle famiglie che quotidianamente condividono i loro momenti difficili e le conseguenze. Con il risultato che prima il malato mentale veniva rinchiuso in luoghi più simili a prigioni che a luoghi di cura e ora, invece, sono a totale carico dei familiari che, controllori, diventano essi stessi reclusi.
Esistono sì alcune situazioni idilliache, le sporadiche 'buone pratiche'".

"Nel frattempo accade che le situazioni di disagio si moltiplicano in maniera esponenziale perché si ammalano interi nuclei familiari. Senza contare che periodicamente le situazioni degenerano in maniera drammatica (provate a digitare su web 'dramma della follia' …). E a quel punto tutti quelli che sapevano si chiedono, troppo tardi, perché nessuno è intervenuto?".

7 GIUGNO 2018

Legge 180, ho lavorato con passione e impegno

Leggo con stupore e disappunto la lettera pubblicata il 3 giugno. E con dolore i commenti che ne sono seguiti.

Mi sono subito chiesta di dove sia la signora ed in quale sanità pubblica abbia lavorato.
Io lavoro dal 1985 in un dipartimento di salute mentale Lombardo. Allora, giovane Psicologa, scelsi di lavorare in psichiatria dopo aver visto cos’era un manicomio già edulcorato dalla legge 180, ed i pazienti che ancora erano lí. Ho lavorato con passione ed impegno con i miei colleghi per superare i manicomi e per dare ad ogni paziente e alla sua famiglia quel diritto di cittadinanza e dignità cui ogni uomo deve avere diritto. Prendendo esempio dall’esperienza Triestina abbiamo iniziato, già in quegli anni, ad incontrare i famigliari sia individualmente che in gruppi di auto/mutuo aiuto.

Personalmente mi sono specializzata in Terapia della famiglia con la consapevolezza che seguire, fin dall’esordio, il paziente e la sua famiglia fosse fondamentale per limitare i danni che il disturbo psichiatrico, incide nell’anima di chi è portatore di sofferenza e differenza (paziente e famiglia).
Mi sono impegnata in progetti di sensibilizzazione sul territorio per sensibilizzare, informare, combattere il pregiudizio e lo stigma.

Con tanti colleghi abbiamo fondato già nel 90 una cooperativa per gli inserimenti lavorativi......
Potrei raccontare ancora molto e mi piacerebbe ma mi fermo qui. Semplicemente vorrei dire che, seppur abbia incontrato colleghi, responsabili, direttori sensibili e attenti nonché sostenitori del l’inclusione sociale, non provengo da un’isola felice.

I Servizi che lavorano non solo PER il paziente, ma CON il paziente, le famiglie, le associazioni, gli enti pubblici, in sintesi con il TERRITORIO, sono tanti e vorrei che avessero una voce per dire a Rosanna che non è sola. Con stima profonda per lei Concita, che seguo da sempre e ammiro per il   coraggio e la forza, con cui porta avanti le sue battaglie, anche per gli ultimi.

Vittoria Corsini

8 GIUGNO 2018

Non si dice matti, ho imparato da mia nonna 

Ricevo da Maria Luisa, che tutti chiamano Mausi, una lettera scritta di getto, con rabbia, per aver letto in questa rubrica le parole ‘matti’ e ‘manicomio’, usate da Rosanna D. in luogo di ‘pazienti psichiatrici’. Nella conversazione che ne è seguita Mausi mi ha raccontato la storia di sua nonna, questa.

"Mia nonna, Paola Verducci Tocco, nata a Messina nel 1902, aveva due lauree: in chimica e in farmacia; cresciuta all'ombra di Don Luigi Sturzo, poi in politica. ‘La prima donna membro di un governo in Europa, sia pur regionale’, diceva con orgoglio. Nel ’47, deputata e assessore nella prima e nella seconda legislatura dell’Assemblea regionale siciliana".

"Fu chiamata nel 1960 dall'allora prefetto di Palermo a dirigere da commissario l'ospedale psichiatrico di Palermo, allora un vero e proprio manicomio, un lager direi. Non è lo spazio di una mail che può descrivere tutto intero il suo lavoro. Noi nipoti, quando affidati alla nonna, giocavamo tra i viali curatissimi dagli ammalati dell'ospedale (5000 degenti). Li rivestí da capo a piedi (Caruso mi ha regalato il libro che rappresentava gli schizzi di questi fantasmi seminudi): aveva messo su una filiera che andava dalla tessitura alla confezione, diede loro uno scopo richiamando le loro abilità pregresse la malattia; non poteva dar loro un salario, ma almeno quel tanto che bastava a far sì che non elemosinassero le sigarette. Il teatro Zappalà a ogni nuova messa in scena era chiamato a rappresentarla all'interno dell'ospedale; per due anni una fila di palchi al teatro Massimo era per i malati, e quando chiedevo: ma come vanno vestiti? La nonna rispondeva: ‘I signori in abito scuro e le signore in abito da sera’. E gli infermieri? ‘Allo stesso modo, non si devono distinguere’".

"Quanto altro potrei raccontare: i pazienti chiamati obbligatoriamente con il loro nome. I compleanni e le feste festeggiate. La battaglia ultradecennale per dare un reparto ai bambini. Anzi mi correggo: un padiglione. Il padiglione Biondo. I corsi di aggiornamento obbligatori per medici e infermieri, il veto all'uso dell'elettroshock a meno che non firmasse lei, mia nonna. E dopo la legge Basaglia tutti fuori, anche chi non aveva famiglia".

"Comprende il disastro per quelle persone? Oggi? Mio figlio è schizofrenico paranoide al 75% con prognosi infausta. (Diagnosi fatta da un medico inglese. Gli italiani, che da allora non ‘fanno i corsi di aggiornamento’, si fermano a schizofrenia indifferenziata). Entri in un qualsiasi reparto di psichiatria in Italia e veda come sono trattati i nostri malati, non hanno spesso neppure un nome. E i centri di recupero?".

"Sono un’esperta. Mi creda, ne so di tutto a riguardo: ho visto tutto da Palermo a Como e continuo a confrontare con il passato vissuto: a giocare con i malati per i viali dell' ospedale in primis. (Le altre nonne andavano e vanno ai giardini). Dimenticavo: le sbarre tolte dappertutto, c'era solo un piano terra nel padiglione occupato dalla direzione. Mi perdoni il lungo sfogo. Perché non fa un'inchiesta? Vorrei anche che qualcuno di accorgesse che ancor prima di Basaglia c'è stata una donna che ha precorso i tempi anche presenti. La prego".


14 GIUGNO 2018

Se un figlio per la madre è un pericolo

Da qualche settimana si è aperta in questo spazio una discussione sull’applicazione della legge 180 del ’78, la Legge Basaglia, che ha appunto compiuto quarant’anni. In margine alle celebrazioni in molti mi hanno scritto per raccontare come, nella pratica, l’applicazione della legge che ha rivoluzionato le cure psichiatriche abbia lasciato spesso alle famiglie il dolore e la fatica. Rosanna ha aperto il dibattito, Mausi le ha risposto ricordando sua nonna, una pioniera della cura nella Palermo degli anni Sessanta. Come dice Paco, è un discorso impopolare. Ma per fortuna esistono luoghi (pochi) in cui si può prescindere dall’audience e offrire tribuna a quello che vale la pena ascoltare. Ecco la storia di Paco, della sua famiglia.

"Mia madre vive insieme a due miei fratelli, uno in attesa di matrimonio e l’altro in attesa (oggi) di un ricovero in una struttura per disagiati psichici. È stato già ospite tre anni fa in una comunità di recupero per soggetti con doppia diagnosi. La prima per uso di sostanze stupefacenti, l’altra per ludopatia. Ebbene, circa un mese fa questo fratello ricade in uno stato di allucinazioni tale che son dovuti intervenire carabinieri, 118 e vigili del fuoco".

"Non le dico che cosa è stato necessario fare per convincere medici e operatori sanitari a farlo ricoverare in ospedale. In preda alle sue allucinazioni mio fratello era arrivato a legare e cospargere di acqua mia madre (82 anni) perché avrebbe dovuto – secondo lui - purificarla. Sta di fatto che il mattino seguente il 'soggetto in stato ansioso’ viene dimesso e rispedito a casa. Con i miei familiari lo riportiamo nella struttura ospedaliera per farlo ricoverare nuovamente, considerato lo stato di pericolo che mia madre avrebbe corso se fosse stata lasciata sola con il figlio. In ospedale nessuno se ne occupa; durante la notte quando le sue crisi si fanno di nuovo acute mette sottosopra il reparto del pronto soccorso e tutto quanto era presente nei locali adiacenti".

"In pratica sfascia tutto compreso l’ingresso principale dell’ospedale, le forze dell’ordine provvedono semplicemente a prenderne nota. Viene di nuovo rispedito a casa. Solo a questo punto siamo riusciti a far fare al sindaco un Tuo (Trattamento sanitario obbligatorio) per portarlo in altra struttura di ricovero. Da qui poi viene trasferito in altra struttura dove dovrebbe rimanere per trenta giorni. Dopo di che non sappiamo cosa potrà essere di questa situazione pericolosa non solo per la mia famiglia".

"L’unica cosa che ci sentiamo rispondere dai responsabili del Centro di igiene mentale è che la famiglia deve farsi carico di questa situazione, dobbiamo essere noi a convincere una comunità ad accogliere questa persona che a mio modesto parere ancora oggi non è capace di intendere. Dobbiamo essere noi a stabilire cosa può essere necessario per la sua salute, ammesso che di salute possiamo parlare".

"Siamo veramente ridotti così male in Italia in questo particolare settore della nostra sanità? La ringrazio per il suo interesse a queste problematiche sconosciute ai più ma veramente dolorose e senza alcuna soluzione per chi le vive sulla propria pelle"

17 GIUGNO 2018

 Mia madre, una luce oltre la siepe

Grazie a Giuseppina Nosè, Mantova

"Cara Concita, oggi Carla Nicolini, mia carissima amica e socia di 'Oltre la Siepe' onlus, associazione per la promozione della salute mentale fondata a Mantova nel 1996 a ridosso della chiusura del manicomio di Mantova, mi ha mandato un messaggio insistendo perché leggessi la tua rubrica. Ti ringrazio per il coraggio di dare voce alle voci che di solito se ne stanno nel sottoscala dell'anima. Anche la mia ha preso coraggio e così ti scrivo. Faccio memoria della mia mamma (morta nel 1997) che nonostante la vita in manicomio (era una ragazza madre, vergogna di una famiglia poverissima) mi ha sempre passato l'orgoglio di essere stata la cosa più riuscita della sua vita".

"E' un racconto della mia intimità. Eccolo".

"Non mi sono sentita di partecipare ad alcuna ricorrenza, né di esprimermi in questo spazio che concedi alle voci che nei convegni non possono parlare. Quelle dei famigliari di persone con sofferenza mentale, quelle degli amici intorno ad essi o quelle dell'indifferenza e della paura di tanti che non conoscono la malattia. Nemmeno nella mia città, Mantova, ho trovato questa forza tenuta a bada dalle emozioni, ancora dense, di bambina che andava per i viali del manicomio a trovare la sua mamma".

"Tante narrazioni sul quarantennale della Legge Basaglia espresse da psichiatri. Loro si sentono liberati di essere stati degli aguzzini? Sarebbe mai esistito il manicomio senza psichiatri? Non ce la posso fare a stare dentro al 'manicomio' dell'ideologia che vive a ritroso nel tempo con la testa e il collo piegati ostinatamente all'indietro e mai dentro alle storie delle persone. Non si tratta solo di categorie professionali".

"Ci sono tanti sarti che tagliano la mente e cuciono il dolore dei pensieri. Basta smussare i bordi del cervello, sfilare gli orli e le oscure trame di chi si butta dall'ultimo piano della vita. Non vogliamo ricorrenze. A volte e forse una carezza in quelle case di famiglie incredule, sul perché succede proprio a loro di dover tradurre la lingua dei malati, figli figlie fratelli sorelle papà mamme spaesati, fuori e non normali. Vedo la folle corsa dentro le mura di tante case. Non c'è ricorrenza che abbatta sbarre. Solo la vicinanza di giorno in giorno, il pudore, la trepidazione, la forza dei legami, la tutela presso strutture sanitarie spesso sacrificate alla 'servitù volontaria'  delle prestazioni o dei budget".

"Sento alta l'indignazione di usare il dolore altrui per far memoria senza contaminarsi. Quello che ho visto, senza attendere ricorrenze di sorta, è l'impari coraggio di tante famiglie che perennemente chiedono come gestire la convivenza con persone fragili in un esercizio di speranza silenziosa, 'andando oltre le siepi', fondando associazioni, infilando, di ora in ora, un ago nel buio. La cruna è la luce che si può fare insieme".

"Forse le mie ferite, più larghe perché hanno raccolto quelle di tante persone, sono grandi e vogliono stare lontano da chi le tocca inquinandole. Invece, Concita, è riuscita a stanare le mie parole e le mie lacrime. Grazie".

18 GIUGNO 2018

Un'implacabile offesa alla vita

Voglio ringraziarla per l'attenzione alle fasce più deboli della società che suggerisce di porre a chi ci governa. In particolare apprezzo quella rivolta al disagio psichico, forse tra le più neglette, che la lettera della signora Rosanna D. ha rappresentato direi in modo perfetto nella lettera pubblicata nel suo blog.

Sono il padre di un ragazzo... di un uomo di trentotto anni, che subisce ormai da tempo questa implacabile offesa alla sua vita.

La strana magia nera che hanno queste persone di materializzare i loro mostri al punto da renderli reali, nelle conseguenze, anche per chi sta loro vicino, non sembra conoscere antidoti. So bene che esistono normative e strutture al riguardo. E di cui ci siamo anche avvalsi nel tempo. Ma è un fatto che non trasmettono sicurezza e speranza e una sensazione di impotenza e disperazione accomuna tutti coloro che sono coinvolti in questa esperienza.

C'è qualcosa che non va. Al netto del paradosso tutto italiano che vede l'inefficienza, in particolare del settore pubblico, funzionale allo status quo, credo che ci sia un equivoco di fondo nella volenterosa normativa del settore e più in generale nella cultura della libertà e dei diritti individuali. Vorrei insomma provare a rispondere al perché della signora Rosanna la quale, appunto, dolorosamente ironizza sul “diritto” di aggirarsi per il mondo in evidente stato confusionale...

Un malinteso si aggira nella nostra cultura della libertà e del rispetto: finché la tua libertà non limita la mia... principio perfetto per edificare relazioni tra pari, ma evidentemente non appropriato nei casi in specie. Insomma ci si fa carico dei danni che il disagio può provocare agli altri e magari intervenire con un bel Trattamento sanitario obbligatorio, ma non della sofferenza di chi lo vive, il disagio.

Una rimeditazione profonda e alternativa che consenta di invertire l'inerzia attuale è urgente. Intendo in particolare la rimozione di una modalità che caratterizza e qualifica negativamente tutto questo universo: ci si aspetta che il malato si presenti e si faccia curare, come se il disagio psichico fosse una carie qualsiasi! Come tutti sanno il “matto” non sa di esserlo. Quindi non è lui a dover andare dal dottore ma il dottore a dover andare da lui. Sempre se si ha il coraggio, l'intelligenza e la grazia di considerare il "matto" un fratello in difficoltà.

Mi sono convinto che solo questo cambio di prospettiva, al di là delle complessità e resistenze che può comportare, possa segnare un progresso di civiltà e definire al meglio le intenzioni della legge 180.

Grazie per la disponibilità
Giandonato De Santis



19 GIUGNO 2018

Se io mi salvo tu ti salvi

Ho ricevuto decine di lettere sulla Legge 180, la Legge Basaglia, che portò alla chiusura dei manicomi e a una vera e propria rivoluzione nella gestione della malattia mentale. A distanza di quarant'anni le Legge Basaglia resta ancora una legge "rivoluzionaria", ma non del tutto applicata, soprattutto non applicata nello stesso modo in tutta Italia. Le conseguenze sono molte e spesso ricadono sulle famiglie dei malati. Ho ospitato qui molte voci che arrivano dalle famiglie. Storie di amore e di dolore, di violenza e di infinita dolcezza. Questa storia ce la racconta Maria Vittoria.

 

Io sono una di quei familiari. Penso che la sanità italiana sia valida e che come dice lei, abbiamo luoghi dove curarci bene. Per la malattia mentale c’è molto da fare. In gioventù mi sono informata sui temi della pazzia. Andavo a vedere mostre di fotografia (Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin in Morire di classe) guardavo documentari e film sulla malattia mentale (Marco Tullio Giordana in La meglio gioventù) mostre (Arte, genio, follia a cura di Vittorio Sgarbi) pensando di aver capito tutto dei manicomi e quindi di essere con Basaglia e fiera che li avessero chiusi per la brutalità con cui trattavano le persone. Ma questa era metà della mela. Non mi sono mai chiesta dove poi fossero finiti tutti i malati…

Nel 2004 è morta mia madre di tumore al cervello a poco più di 50 anni. E' stato devastante ma non sapevo che dietro l’angolo questa tragedia stava per risvegliare la malattia di mio padre. Mio padre iniziò a crearsi una sua realtà, per sopravvivere al dolore. All’epoca non ne sapevo nulla. Per me i matti erano quelli che urlano per strada, con occhi sgranati. Persone che vedi che sono matte, semplici da riconoscere.

Mio padre fu ricoverato, Trattamento sanitario obbligatorio in psichiatria, gli diagnosticarono la malattia bipolare e me lo rispedirono a casa imbottito di farmaci e confuso. Avevo poco più di 20 anni e una bomba mi stava per esplodere nelle mani. Pensai a un esaurimento nervoso. Non avevo nessuno strumento per capire. Nessun medico mi aveva spiegato nulla a parte le dosi dei farmaci. Nessun biglietto delle istruzioni.

In famiglia nessuno capiva. Tutti erano spaventati e non sapevano come gestire questa cosa. Negli anni successivi ho cercato di curare mio padre (che non riconosceva di essere malato). Dagli psichiatri non puoi portare il malato perché ci deve andare con le proprie gambe. La malattia è infima. Non si vede. Lavora indisturbata. La malattia distrugge tutti i legami familiari.

Mio padre ha aggredito verbalmente e manipolato per anni tutti i familiari perché ognuno di noi non parlasse con l’altro. Io sono stata aggirata, mi sono state nascoste tante cose e la scarsa comunicazione è stata alla base della distruzione dello strato familiare. Mio padre diceva una cosa a uno e all’altro diceva il contrario in modo da creare confusione e malintesi.

Ho perso in ordine: tutti gli amici di famiglia che sono stati i primi a scappare. La famiglia ha tentato ma non ha capito, loro pensavano che mio padre fosse cattivo ed egoista. Allora mi chiedo perché uno che ha un genitore malato di Alzheimer tutti gli dicono: “poverina” ma uno che ha un genitore bipolare: “tuo padre è un mostro”. Ci meritiamo davvero tutto questo oltre a quello che stiamo già vivendo?

Quindi ricapitolando: i 3 milioni di bipolari italiani a piede libero cosa stanno facendo in questo momento nelle famiglie? La stanno distruggendo come mio padre ha distrutto la mia? Io che mi ritrovo figlia unica, senza madre, e ora senza padre che si è lasciato morire, la famiglia allontanata che pensa che io me ne sia fregata del problema come posso spiegare loro che ho cercato di salvarlo ma anche di salvarmi per non finire anche io nel buco nero dell’oblio? Come possiamo curare queste persone e rimanere sani anche noi?

Maria Vittoria



28 GIUGNO 2018

Un ragazzo perfetto, e poi all'improvviso...

Grazie a Francesca, mamma di un ragazzo bipolare

Francesca ha tre figli. Il maggiore soffre di un disturbo che da poco tempo ha accettato di chiamare con il suo nome: bipolare. Tutta la sua famiglia, le sorelle, gli amici intimi sono ingaggiati con lui nella battaglia. Ho conosciuto Francesca, una donna piena di energia e carica di sorrisi. Questa la sua lettera.

“Tornare a casa e non riconoscere più tuo figlio di diciotto anni. Quello perfetto, sorridente, educato, bravo a scuola. Da lì iniziare un pellegrinaggio di psichiatra in psichiatra. Notti sul web a cercare la miglior cura, il miglior centro, le controindicazioni dei farmaci che prende. Reimparare a fare la madre e andare in psicoterapia a tua volta per apprendere come relazionarti con lui quando sta male. Non rassegnarti e cercare insieme a lui la giusta dose di equilibrio. Non troppo giù, né troppo su. Voltare le spalle a chi ti dice che non finirà il liceo, che l’università è uno stress troppo grande, che ci sono delle belle comunità. Scoprire con orrore che sì, la politica si occupa molto di sanità, ma no, non di salute mentale".

"Non è chic, non è trendy. Soprattutto difficilmente ci sono miracolose guarigioni. C’è piuttosto tanta solitudine, dei pazienti, delle loro famiglie che non sanno dove sbattere la testa, dei medici e degli operatori che nessuno mette in rete per continuare a fare ricerca e scambiare ‘best practice’. Si investe - giustamente - nella ricerca di molte malattie rare, ma non in questo settore che affligge il 2% della popolazione italiana. Sempre più adolescenti hanno disturbi di salute mentale".

"Si tagliano, si ritirano dalla vita sociale, hanno disturbi alimentari, tentano il suicidio, sperimentano ogni sorta di dipendenza e di ludopatia. Ma per loro, usciti dall’età pediatrica, non ci sono luoghi di cura dedicati. E se hai bisogno di un ricovero è assieme ad altri malati anche ottantenni in letti così vicini che sembrano matrimoniali. Ti tolgono tutto quando entri. Il cellulare, il carica batterie e quel che resta della dignità di una vita normale. Ho pensato no, qui non ti lascio figlio mio. Quando tornerai in te senza pensare più di essere Maometto, non voglio tu abbia la memoria e lo stigma di essere stato in un posto così".

"Basaglia diceva che ‘l’irrecuperabilità del malato è spesso implicita nel luogo che lo ospita’. La bellezza può curare. Ma è assai raro trovare bei luoghi della salute mentale. A meno di non spendere tanti soldi, fiumi di soldi. Che in pochi hanno. Invece di andare per tentativi, ci sono test genetici oggi che possono individuare il farmaco più utile a ciascuna persona, dimezzando recidive e cronicità. Ma anche questi, che pure potrebbero far risparmiare enormemente il sistema sanitario nazionale, non sono mutuabili e così giù di antiepilettici, antipsicotici anche se a te, scopri poi, bastava il litio".

"A quaranta anni dalla legge Basaglia serve con urgenza un nuovo movimento che risvegli le coscienze, che riaccenda la luce sulla salute mentale e che faccia uscire le persone dalla solitudine. Perché come diceva Don Milani ‘se il tuo problema è uguale al mio, risolverlo da soli è avarizia, sortirne insieme è Politica’”.