CICLO DI INCONTRI PER FAMILIARI DI PERSONE CON DISTURBI PSICHIATRICI E OPERATORI DEL SETTORE

Diagnosi plurime: Disabilità intellettiva associata a disturbo psichiatrico

Relazione Dott.ssa Alessandra Viganò: Coordinatrice centro Coop Luciano Donghi - Scienza dell’educazione

Lissone, 30 Marzo 2019

Sono Alessandra Viganò, faccio l' educatrice da 25 anni e da qualche anno coordino il centro socio occupazionale della Donghi: la cooperativa Donghi opera sul territorio di Lissone (inizialmente come laboratorio sociale dal 1974.
Grazie a Luciano Donghi e ad altri cittadini lissonesi è stato costituito questo spazio lavorativo che già allora rispondeva sia al bisogno della disabilità che al bisogno del della parte psichiatrica.
Attualmente la cooperativa Donghi gestisce tre servizi:
- Un Centro Diurno Psichiatrico accreditato dal 2001, che accoglie quindi persone con una diagnosi psichiatrica
- Un servizio di Residenzialità Leggera; anche questo servizio è dedicato alla parte psichiatrica
- Noi rispondiamo invece per la parte ritardo mentale; quindi disabilità intellettiva associata a disturbi comportamentali e psichiatrici, solo con la parte diurna.
Vediamo ora quali sono le mie domande, i miei dubbi, le mie difficoltà nel poter avanti un discorso di risposte residenziali o di avvicinamento alla residenzialità.

Dal 2009 circa si è costituito questo nuovo servizio: il Centro Socio Occupazionale.

Abbiamo voluto puntare su questo nome perché, in qualche modo, spiega quello che offriamo e un po' la nostra proposta educativa e di attività.
Si tratta di attività, da un lato, socializzanti e dall'altro occupazionali; perché questi ragazzi arrivano con il grande desiderio di poter lavorare e quindi di potersi sperimentare in situazioni vicine a quelle lavorative.
Ultimamente, soprattutto negli ultimi due, tre anni, i servizi sociali dei Comuni ci presentano persone con, non solo con doppia diagnosi, ma addirittura con diagnosi plurima o diagnosi complessa, che spiega ancor meglio di cosa stiamo parlando.
Come diceva il dottor Mansi, dopo un percorso scolastico, dopo aver ricevuto delle risposte dalla neuropsichiatria infantile, queste persone arrivano ai servizi sociali dei Comuni all'area adulti disabili.
Nella maggior parte dei casi non trovano una collocazione perché nei centri
diurni civici l'utenza è, per questi ragazzi, troppo connotantai per cui una delle prime frasi che io sento è: “Io non sono mica un handicappato, io in quel centro non ci voglio andare!”
D'altro canto l’inserimento è reso complesso proprio per i risvolti comportamentali: agiti aggressivi, piuttosto che comportamenti ossessivi, eccetera.
È difficile rendere compatibile la proposta educativa con questi ragazzi.
Questa complessità però non trova neppure risposta, dal nostro punto di vista,
dal servizio psichiatrico.
La risposta c’è da un punto di vista del farmaco, nel senso che vi è un monitoraggio della terapia.
Non lo dico con le mie parole; riprendo uno stralcio di una relazione di inserimento di un servizio sociale di un assistente sociale che mi scrive:
“Il CPS di zona non propone attivazioni di servizi in quanto egli ha anche un deficit cognitivo e questo sembrerebbe escludere da eventuali attivazioni in servizio psichiatrici”
Quindi quello che la famiglia prova sulla sua pelle lo vediamo anche noi.
D' altro canto però, rigurdo alla stessa persona, la relazione dello psicologo dice: “L’impressione generale durante il colloquio è che non ci sia una reale disabilità intellettiva, che, nel caso, sembrerebbe comunque secondaria rispetto alle problematiche di tipo psichico”
Questo è il classico esempio della complessità che una famiglia si trova a gestire.
Spesso lavoriamo con famiglie che di fronte a questa complessità faticano - io dico giustamente - ad orientarsi e ad interagire con i servizi che, non per incompetenza,
ma proprio perchè sono strutturati in modo settoriale, danno risposte settoriali alla persona che invece porta dei bisogni complessi.
Quindi, date queste premesse, noi, già nati come servizio che rispondeva alla doppia diagnosi, ci siamo sempre più strutturati ed abbiamo rivisto anche un po' il nostro stile educativo e la nostra proposta organizzativa e di attività proprio tenendo conto delle caratteristiche di queste persone.
Siamo cinque operatori con un coordinamento, due educatori professionali, una terapista della riabilitazione ed un maestro d' opera che si occupa principalmente della cura del verde.
Le nostre attività, svolte inizialmente molto all'interno della struttura, negli ultimi anni si sono spostate anche sul territorio collaborando con il banco alimentare di Muggiò per la parte occupazionale.
Inoltre svolgiamo attività socializzanti con all'Enpa di Monza, ma anche con ditte profit per proporre degli stage; infatti a volte ci si trova di fronte alla difficoltà che il ragazzo è pronto a sperimentarsi anche nella parte lavorativa, ma poi, nella realtà, è difficile trovare delle risorse in questo ambito.
Quindi abbiamo provato anche a muoverci un po' direttamente in questa direzione.

Il nostro servizio ha il limite che è un servizio diurno: cioè noi siamo aperti dalle 8:30 alle 16:30.
L' invio al nostro servizio deve avvenire tramite i servizi sociali, ma accade che molte famiglie arrivano direttamente da noi a chiedere, in questo peregrinare tra servizi, una risposta ai loro bisogni.
Come rispondere a questi bisogni?
Noi, negli anni ci siamo fissati dei punti fermi di ragionamento su cui tentiamo di sviluppare il nostro lavoro; il principale di questi è la gradualità.
L' accoglienza viene fatta in modo molto gradualmente nei tempi, nei modi e nelle modalità di inserimento; perché in sostanza la cosa importante è la conoscenza reciproca e il far emergere i bisogni e le competenze della persona.
Inizialmente non chiediamo al ragazzo di fare delle attività, ma di instaurare una relazione attraverso le attività. Questo è il primo punto in un contesto di relazione che noi cerchiamo di rendere il più possibile sereno e leggero.
Leggero non nel senso di superficiale, ma proprio per non andare ulteriormente ad appesantire una situazione già pesante con le nostre richieste; perché, come diceva il dott. Mansi, sono comunque persone che, fin da piccoli, subiscono continue frustrazioni dal momento che non riescono a rispondere alle richieste della scuola.
Quindi, nel momento in cui arrivano in un centro diurno, non possiamo anche noi subito chiedere di frequentare costantemente, subito di non fare assenza, subito di partecipare ad attività.
Questi sono degli obiettivi su cui, in un centro diurno, poi si può lavorare, ma non sono dei prerequisiti: quindi la gradualità è fondamentale.
Gradualità che presuppone il rispetto del senso dell' altro.
Un esempio è quello di un ragazzo che ha cominciato a frequentare da noi ed è stato un mese fuori dalla porta; questo cosa comporta? Comporta o di porre lui nella frustrazione di essere continuamente chiamato ad entrare a svolgere l' attività, o di porre noi nella frustrazione.
Secondo noi dobbiamo accettare di stare noi nella frustrazione, come operatori, nel vedere che la persona non riesce a rispondere a quello che sono le nostre proposte. Invece il rispetto dei tempi dell'altro porta a una maggiore adesione nel tempo e questo lo abbiamo poi verificato.
L'organizzazione del servizio non deve portare alla frustrazione: io mi sono trovata in molti casi a tornare a casa e dire “Ma caspita! Ma non ho fatto nulla! Non ho fatto far nulla a questa persona!”
Non è vero nel momento in cui gli si crea un ambiente in cui viene accolto con le sue fragilità.
Un altro elemento importante è l'accettazione: non solo accettazione dei propri limiti, ma anche accettazione dell'altro.
Nel momento in cui questa persona non trova un'accettazione da parte dell' operatore non si esce più da questa situazione.
L'accettazione di sè richiede tempi molto molto lunghi: tra l' altro non possiamo pretendere il cambiamento da persone che temono fortemente il cambiamento; però lo possiamo indurre in qualche modo.
Perché i nostri ragazzi temono il cambiamento?
Perché di base sono alla ricerca costante di sicurezza, anche se tendono ad avere anche forti atteggiamenti di rigidità.
Non possiamo pretendere noi stessi, come operatori, di fornire delle indicazioni o di dare delle soluzioni rigide.
In realtà, partendo dall'essere noi stessi flessibili e facendo sperimentale che questa flessibilità non è così paurosa.

Il cambiamento all' interno di una situazione protetta può portare ad un cambiamento anche all' esterno; questo ovviamente con i tempi di ciascuno.
Una delle prime domande che noi poniamo quando conosciamo la persona è cosa la persona ama, cosa le piace fare.
Non partiamo mai da un programma definito.
Il nostro programma di attività, in parte simile a quello dei centri diurni, ha tutta una parte di attività rivolte alla cura del sé, piuttosto che alle parti interrelazionale, ecc...

- Mi sono persa un attimo scusate perché, in realtà, non è il mio lavoro parlare -
Bene si parte dal chiedere che cosa piace fare e da lì si costruisce per ogni persona un programma personalizzato, un progetto individualizzato.
Progetto che definiamo non tanto sulla base delle carte che ci arrivano, ma proprio costruendolo con la persona; tant'è che nei primi tempi dell'inserimento noi proponiamo di frequentare, ad esempio, una prima settimana il lunedì, il martedì e il venerdì, mentre per la settimana successiva proponiamo il giovedì e il venerdì.
Questo per fornire alla persona, per così dire, una visione complessiva di quella che è la nostra proposta e poi poter scegliere quale progetto individualizzato portare avanti e quali attività svolgere.
Un altro concetto importante è l' ascolto e il coinvolgimento in un lavoro che deve essere per forza basato sulla gradualità e la flessibilità.
Anche l' ascolto e il coinvolgimento dall'inizio sono sono fondamentali.
Così come il concetto di adultità, cioè dell' essere adulto: questo è un altro degli argomenti che tutti i giorni noi ci troviamo ad affrontare, perché la società richiede di essere adulti (Sei adulto a 18 anni): la persona stessa dice “Ma io sono adulto!”, d'altro canto teme e nega al tempo stesso di essere adulto.
Quindi è fondamentale mettere la persona nella condizione di scegliere ogni giorno e in un contesto protetto quello che secondo lui è meglio.
Partendo semplicemente dalle piccole cose: ad esempio scegliendo il pasto, se la persona non è in grado di scegliere il pasto perché è sempre stato scelto per lei.
Scelgo anche qualche attività che mi piace e nella quale mi sento sicuro; in questo modo l' inserimento del mio essere adulto avviene in un contesto protesto.
Questa complessità però rende difficile l' accettazione anche dell' altro.
In sostanza, da quando abbiamo messo da parte un po' la rigida applicazione del nostro programma e ci siamo un messi in ascolto delle persone, ci siamo resi conto che hanno cominciato a frequentare con maggiore interesse. Non vivendo questo questa attività come un obbligo, come un peso.
Non vi annoio in questa sede con dati statistici però vi posso dire che, nel corso degli anni, le persone hanno cominciato a frequentare in maniera più costante e con maggiore presenza.

Abbiamo anche riscontrato un' altra cosa che va sottolineata: sempre più pazienti chiedono anche di avere un aumento della frequenza.
Tutti questi aspetti ci portano a dire che non esiste uno stile educativo o una modalità organizzativa giusta o sbagliata, ma esiste invece uno stile educativo che ogni équipe delle costruirsi in base alla tipologia dell'utenza e in base a come si è come operatori, ma anche come persone: da lì poi si riesce a sviluppare una serie di risposte per i bisogni importanti.
In questo in questo modo dico: va bene, riusciamo a dare delle risposte perché le persone restano da noi; quindi bisognerebbe indirizzare un po' il lavoro, sempre tenendo conto dal nostro punto di vista per come l' abbiamo fatto, su questi concetti: gradualità, flessibilità, eccetera.

Però dico anche che c'è molto da fare: quando una ragazza arriva e mi chiede “-ma io sono dunque più psichiatrica, ho più difficoltà cognitive oppure il mio disturbo è un pochino più psicologico ed emotivo?”. Io mi chiedo: “Ma come mai è arrivata a chiedersi questo, come mai è arrivata a disgregare ancora di più il suo pensiero rispetto alla sua difficoltà”
Il discorso è che, di fronte ad un panorama di servizi che offrono risposte settoriali, l'utente e la sua famiglia sono continuamente alla ricerca di risposte, passando spesso da un professionista all' altro, da un servizio all'altro e risultando così sempre più confusi.

Quindi è sempre più palese che i servizi, oltre che rispondere alle priorità, devono avere un po' tra i loro obiettivi quello di creare degli spazi e delle proposte che determinino l’adesione di questi ragazzi.
Diciamo però che quello che serve è anche un coordinamento tra i servizi, perché
risposte settoriali i date e non coordinate creano ulteriore confusione.
Un altro tema importante è quello della residenzialità o avvicinamento alla residenzialità o sollievo che dir si voglia.
Qui ci accorgiamo che non siamo attrezzati come servizi territoriali per rispondere ai bisogni di emancipazione e autonomia di questi ragazzi.
È estremamente difficile trovare delle comunità (ho provato chiedendo, incontrando altre cooperative) proprio per i motivi che dicevamo prima legati alla complessità della diagnosi.
Anche il cosiddetto dopo di noi sarebbe ideale, salvo essere invece pensato per una per una fascia di utenza con disabilità grave.
I ragazzi con doppia diagnosi invece hanno delle potenzialità - come diceva il dottor Mansi - fortissime, anche di autonomie (delle grandi autonomie) che però non hanno la possibilità di mettere in atto fuori dal proprio ambiente familiare, proprio perché non ci sono delle comunità. Infatti le comunità psichiatriche non sono indicate per i motivi che abbiamo, detto; stsso discorso vale per le comunità residenziali per gli altri motivi che abbiamo detto.
Quindi in merito a questo argomento c'è davvero tantissimo da fare.
Infatti come cooperativa noi ci stiamo muovendo per creare sinergie, per capire anche con altre cooperative come mettersi insieme, perché è da soli non si riesce anche da un punto di vista economico.
Quindi l' idea è che mettersi assieme crea confronto e dal confronto possono nascere poi non solo delle idee ma, soprattutto, anche delle azioni di miglioramento. Non si può fermarsi nella situazione attuale per la doppia diagnosi.
Ecco ho buttato lì un po' di pensieri che poi possiamo riprendere assieme.